La sobrietà nello spirito del “Sine proprio”, il II° incontro con sr. Ludovica Loconte osc

Vincenzo Bini 23.1.2020  Erano oltre 500 i terziari, provenienti da tutta la Puglia, che hanno affollato la “Sala Vittoria” dell’UNA Hotel Regina di Noicattaro lo scorso 19 gennaio, dove si è tenuto il secondo dei tre incontri previsti per questo ciclo di formazione regionale. Dopo aver approfondito nel primo incontro il tema dell’obbedienza, suor Ludovica Loconte osc, ci ha accompagnati in un bellissimo viaggio alla scoperta della sobrietà, cui questa sintesi non potrà mai rendere merito perché priva della sua passione, delle emozioni che è capace di trasmettere con il suo carisma.

La sobrietà, appunto, un argomento che bene viene introdotto dall’Art. 11 della nostra Regola: “Cristo, fiducioso nel Padre, scelse per Sé e per la Madre sua una vita povera e umile, pur nell’apprezzamento attento e amoroso delle realtà create; così, i francescani secolari cerchino nel distacco e nell’uso una giusta relazione ai beni terreni, semplificando le proprie materiali esigenze; siano consapevoli, poi, di essere, secondo il Vangelo, amministratori dei beni ricevuti a favore dei figli di Dio. Così, nello spirito delle “Beatitudini”, s’adoperino a purificare il cuore da ogni tendenza e cupidigia di possesso e di dominio, quali “pellegrini e forestieri” in cammino verso la Casa del Padre”.

Una “sintesi perfetta” della Laudato Si’ di Papa Francesco, come la definisce la sorella clarissa, che richiede un “tuffo” nelle Fonti per meglio comprendere come Francesco d’Assisi interpreta la povertà. “Sine proprio”, senza niente di proprio, senza nulla di mio: “Nulla, dunque, di voi trattenete per voi, affinché tutti vi accolga Colui che tutto a voi si dona” (FF 221). “Sine proprio” non significa dunque “senza di me”, ma esprime il valore che mi dà il Padre, come figlio suo, “senza nella di quello che voglio per me”.

Francesco e Chiara non sposano la povertà, ma il “Cristo povero”, quella via che il Signore ha scelto per venire tra noi che tanto tormenta i due giovani, che li intriga! La via della povertà e dell’umiltà: lì Francesco incontra Gesù: Colui che umiliò se stesso, divenendo simile agli uomini… Un “cammino in discesa” verso una condanna a morte, come il peggiore dei malfattori.

Il “Sine proprio” come povertà di Spirito

Questa carne che non si deve inorgoglire: il riconoscimento e la gratificazione, due aspetti che è facile declinare al maschile e femminile rispettivamente, due cose per le quali ci svendiamo, ci sviliamo. Tutto quello che esce di buono dalla nostra vita viene da Dio! La carne si inorgoglisce se non riconosco l’opera di Dio in me. Al contrario, rendo grazie, mi umilio, mi stupisco. L’orgoglio è un’appropriazione di volontà che toglie a Dio ciò che è di Dio. I ministri sono chiamati a vigilare nelle proprie fraternità, a verificare se gli uni sono contenti degli altri… Gioisci! Perché disprezzare, detrarre, anziché guardare a Dio e aggiungere? Siamo spietati! Se mi inorgoglisco e sono avaro nei confronti della gioia altrui, tolgo a Dio ciò che è di Dio. Devo servire, non servirmi della Parola di Dio!

Senza armi, come scrisse San Francesco nella prima Regola non bollata: “Non resistano al malvagio”. “Ecco l’agnello di Dio”: mitezza e vicinanza. Questo è il nostro modo di stare fra i lupi. Se oppongo resistenza divento anch’io un lupo! Tu puoi decidere se essere fedele, se essere “francescano”. Porgi la guancia, offri la tunica, prega per chi ti perseguita e ama il tuo nemico! “Diano a chiunque chiede”. I muri non ci fanno crescere, senza gli altri non si cresce… In obbedienza alla Chiesa! Diamo senza chiedere che ci venga restituito: come quando viene contestato l’operato di ministro uscente. Per chi hai fatto ciò che hai fatto durante il tuo servizio, per te o per Lui? Credi veramente di poter fermare l’opera di Dio?

Il “Sine proprio” come dono dei fratelli

Una vita sobria, che punta al bello, non resiste a quello che le si presenta davanti, ma lo vive con gioia. Il banco di prova della povertà sono i nostri fratelli, dono di Dio! “Chi invidia i fratelli, invidia Dio” (Amm. VIII). “Non vi sia fra di voi invidia, gelosia, detrazione, discordia, divisione, disprezzo…” dice San Francesco ai suoi fratelli. Tutte cose nate con noi. Sin da bambini abbiamo sperimentato la coesistenza con i fratelli o le sorelle, a dividere il “territorio”: parlo di me paragonandomi agli altri, come quando ci si divide l’eredità. Un genitore si giustifica dicendo di voler bene a tutti i figli allo stesso modo, ma non dice una cosa corretta. Dio ci dà ciò di cui abbiamo bisogno, donando tutto se stesso secondo le nostre necessità e così fanno i genitori. Siamo invidiosi di quanto un fratello riceve per un suo bisogno. È Dio l’ingiusto, Colui che “fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5,45)? Un francescano non discrimina, non esclude, non divide il mondo in “buoni e cattivi”, ma cresce godendo dell’altra parte della sua vita. Quello che faccio a un fratello o a una sorella lo faccio a Dio e quello che faccio a Dio lo faccio a me! In fraternità dobbiamo allenarci a discutere, a confrontarci, anche litigando se necessario. Solo così potremo combattere permalosità e autoreferenzialità. Se non si litiga non si cresce. L’arte è litigare… facendolo bene! Chi si irrita non è “povero in spirito”.

Ira e turbamento, ovvero adirarsi o chiudersi, sfogarsi o implodere. Più pericolosa la seconda, perché non dà possibilità di replica: sempre meglio “litigare bene” che chiudersi. Ira e turbamento ci fanno diventare ladri perché portano all’appropriazione dell’opinione che abbiamo dell’altro. Nella prova resto fedele al Vangelo, perché “tu sei mio fratello”, “non sono migliore di te”! Bisogna rispondere al fratello, non al male che mi ha fatto… Risalendo a Lui, sulla Croce: “Perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,33). Bisogna recuperare relazioni buone nelle nostre fraternità, che “profumino” di Vangelo, non litigare per chi deve portare il cestino della questua.

“Non pretendere dal fratello altro se non ciò che il Signore ti darà, e in questo amalo, e non volere (per te) che il fratello diventi migliore” (Lettera a un Ministro 6). Un ministro che chiude il proprio mandato riconoscendo di essere cresciuto e di amare di più i fratelli ha capito tutto ed è pronto a lasciare la fraternità! Con il perdono negli occhi… davanti al quale il fratello può rinsavire, comprendere che c’è qualcosa di più! Servizio, non potere! Senza pretese… Un ministro che è cresciuto e ora ama di più è uno che si è sofferto i fratelli e le sorelle uno ad uno. Il Vangelo funziona al contrario dei nostri pensieri: che il primo sia l’ultimo; sono venuto per servire, non per essere servito; sono venuto per dare la vita, non per prendermela.

Chi è povero nello spirito accetta la correzione dei fratelli, un servizio di amore che mi aiuta a crescere e per crescere ho bisogno degli altri. Spesso rispondiamo più in base a “come” ci vengono dette le cose che a “cosa” ci viene detto. Un capito elettivo diventa spesso un tormento che rende difficile la scelta di un ministro che sia espressione del cammino a cui si predispone la fraternità. Il voto deve essere, invece, frutto di un’assunzione di responsabilità da parte dei professi.

“Se avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato” (FF 278). Questa è la prova suprema: la perfetta letizia. Se avrò vissuto tutto questo e non avrò perso la pace… ma la pace non me la fa perdere il fratello. La pace la perdo io quando permetto che che ciò che mi succede guasti la mia pace… e perdo il fratello!

Il “Sine proprio” come restituzione nella condivisione

Quello che ricevo da Dio devo restituirlo ai fratelli: questo è il centro della spiritualità francescana, la circolarità che porta “all’economia della salvezza”. Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole” (Rm 13,8). Un ministro serve la fraternità “come se lavasse i piedi”.

La vita è il luogo di restituzione: restituire i doni del Signore e diventare lode di Dio per gli altri.

Il lavoro come grazia di restituzione: abbiamo il dovere di lavorare con fedeltà e devozione, nonostante le difficoltà di una società che ci fa lavorare male, che ci spreme come un limone. Restando fermi su chi siamo, non da alienati: non voglio diventare il mio lavoro; io sono io e lavoro!

Un’altra espressione del “Sine proprio” sono le opere sante: sono povero se la mia vita rende ricchi gli altri con i doni che Dio mi fa. La mia povertà ricca di cose buone, ricca di Dio… non di “me”.

In chiusura suor Ludovica ci ha anticipato il tema del prossimo incontro: la castità, da lei stessa descritta come “un’espressione fortissima di povertà”. La castità con cui tutti noi siamo costretti a confrontarci, che ci mette alla prova, che passa in tutti i nostri pensieri. “Sapendo che non avrei ottenuta la capacità di essere casto, se Dio non me l’avesse concessa… mi rivolsi al Signore e lo pregai” (Sap 8,21). In questo troveremo la pace!

La castità, la povertà, l’obbedienza, sono doni immensi che vanno chiesti a Dio. E quando non ce la facciamo, perché sappiamo che questo può succedere, non dobbiamo mai dimenticarci che il nome ultimo di Dio, quello più grande, è “Misericordia”! Il nostro cammino deve arrivare fino alla Sua misericordia. Questa è la nostra ricchezza… solo e soltanto se saremo poveri!

Vincenzo Bini

Ministro della Fraternità di Giovinazzo

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