‘Quel suo profumo!’ L’ultima testimonianza della consorella Lilly D’Elia di Grumo Appula

Comune_Grumo_AppulaAngela Abruzzese 06.10.15  Ancora adesso il lunedì è il giorno del mercato a Grumo Appula ed alcune strade del paese sono occupate da bancarelle che espongono ogni genere di mercanzia alle donne che vi si affollano. Quella mattina del febbraio 1960, mamma, Nietta ed io uscimmo per fare delle compere. Nonostante facesse freddo, era una bella giornata ed era piacevole camminare. Ad un certo punto del nostro tragitto, inaspettatamente, mia sorella chiese il permesso di tornare indietro dicendo che aveva dimenticato di fare una cosa urgente. Verso mezzogiorno anche noi facemmo ritorno a casa e fu allora che scoprimmo il perché Nietta ci avesse preceduto: aveva lavato le lenzuola che mamma aveva immerso nella saponata dalla sera precedente.

Non avevamo a quei tempi la lavatrice e mia sorella voleva risparmiare la fatica del bucato a mano a nostra madre, ancora convalescente per l’influenza che in quell’inverno era stata particolarmente virulenta, passando alla storia sotto il nome di “asiatica”.

“Ma tu sei matta! – esclamò mamma – con la tosse che hai ti sei messa a lavare i panni con l’acqua fredda!” – Il suo rimprovero nasceva dalla preoccupazione per la salute di Nietta, anche lei ”reduce” dall’asiatica. Tale preoccupazione aveva preso il sopravvento sulla gratitudine per quel gesto premuroso della figlia. Questa sorrise e disse:”E’ successo una cosa strana. Mentre lavavo, ho avvertito un intenso profumo di fiori, ma non ho capito da dove provenisse.” Indagarono insieme, ma non riuscirono a darsi una spiegazione, visto che non era sicuramente l’inconfondibile odore del sapone di Marsiglia e non c’era alcuna fioritura nei dintorni, data la piena stagione invernale.

Trascorsero, da quel episodio, alcuni giorni. La tosse continuava a tormentare mia sorella, nonostante i vari sciroppi e l’aerosol.

Quanto credevamo fosse causato da postumi influenzali, incominciò ad impensierirci e dopo aver consultato il medico di famiglia ci rivolgemmo a numerosi specialisti, andando anche da un luminare di Roma. Tutti, dopo accurate visite, minimizzarono l’importanza di quel sintomo, attribuendolo ad una faringite derivante dalla professione d’insegnante che mia sorella svolgeva nella scuola elementare.

Passarono così alcuni mesi durante i quali le sue condizioni di salute andarono peggiorando: l’inappetenza si aggiunse alla tosse sempre più insistente e stizzosa e l’organismo incominciò a mostrare segni di deperimento. Continuarono anche i misteriosi profumi, avvertiti soltanto da mia sorella, nei momenti e nei luoghi più imprevedibili.
Quando alfine furono rilevate alcune linee di febbre, i miei genitori decisero di ricoverare Nietta al Policlinico di Bari. Qui fu riscontrata una grave pleurite che richiese una dolorosa toracentesi. Purtroppo il liquido estratto conteneva del sangue. Ciò alimentò nei medici il sospetto che si trattasse di un tumore polmonare. Lo comunicarono a mio padre. Nel suo terribile dolore egli si confidò soltanto con me. Iniziammo a pregare intensamente e con grande fede. A questa ci aggrappammo dopo che l’analisi di una glandola, estratta dal collo, confermò la diagnosi nefasta. Nelle tenebre che ci avevano avvolto si era accesa una luce: un frate cappuccino, che nel Policlinico era cappellano e al quale mia sorella si era confessata, le aveva svelato il mistero degli effluvi odorosi: “Questo è un segno, figlia mia, della vicinanza di Padre Pio”.
Padre Pio! Da anni si sentiva parlare di questo frate con le stimmate, che otteneva dal Signore grazie straordinarie; ma si diceva anche che tutte quelle notizie fossero chiacchiere di gente semplice e credulona. E la Chiesa, comunque, non incoraggiava a prestarvi fede.
La mia famiglia, negli anni ‘40, aveva abitato nella piccola stazione delle Ferrovie dello Stato di Arpi, ad otto chilometri da Foggia, in cui mio padre svolgeva il compito di capostazione titolare.
Lì i miei avevano vissuto gli anni difficili della guerra, fra continui bombardamenti e pericoli di ogni genere; ma avevano sperimentato più volte la protezione divina, che imploravano, pregando insieme, ogni giorno, davanti ad una bellissima immagine del sacro Cuore di Gesù.
Tornata la pace, papà aveva organizzato un pellegrinaggio a Pompei, allestendo un treno speciale, che si riempì tutto di fedeli.
Io non avevo ancora due anni, ma mi è rimasto impresso il ricordo dell’ingresso, nel Santuario, di quella folla inneggiante: “Mira il tuo popolo, bella Signora …..”
Per molto tempo dunque abbiamo vissuto ai piedi del Gargano. La grotta dell’Arcangelo Michele è stata più volte visitata da noi; ma il pensiero di recarci a San Giovanni Rotondo fu sempre scartato da mio padre, per una sorta di diffidenza verso quel frate.
Ed ora proprio Lui si manifestava a noi, in quel modo così straordinario, nel momento più doloroso della nostra vita. Chiedendogli perdono nel profondo del suo cuore, mio padre non esitò a cogliere quel messaggio che, nella terribile circostanza, appariva come l’unica ancora di salvezza, e decise di portare Nietta da Lui.
“Qualunque cosa chiederete nel mio Nome vi sarà concessa dal Padre Mio” – Ricordando questa promessa evangelica papà, nel presentarsi a Suor Myriam, disse: “Nel nome di Gesù, sorella, renda possibile il ricovero di mia figlia in questo presidio sanitario!”. La religiosa non potè che darsi da fare per superare le molteplici difficoltà.
“Casa Sollievo della Sofferenza” era stata inaugurata solo da qualche anno. Si ergeva con tutta la sua bellezza e maestosità, nel suo biancheggiare tra il verde della vegetazione e l’azzurro del cielo. Ma ciò che più ci colpì e confortò fu l’accoglienza caritatevole che ci fu offerta dalle suore e dal personale medico e paramedico. Tutti s’interessarono di quella bellissima ragazza che, a soli ventisei anni, era stata colpita da un male inesorabile, allora ancora poco diffuso tra i giovani e i non fumatori.
Le nuove cure e il cambiamento d’aria inizialmente sembrarono giovare a Nietta, tanto che il Professor Lucentini, durante una sua visita giornaliera, ebbe ad esclamare: “Torna a fiorir la rosa!”. A mia madre fu data la possibilità di rimanere accanto all’ammalata notte e giorno. Mio padre ed io invece viaggiavamo continuamente. Quando, nei fine settimana, eravamo a San Giovanni Rotondo, ci sembrava di vivere in un’altra dimensione.
Respiravamo l’atmosfera mistica di quel luogo e ci sentivamo sollevati spiritualmente. Avevamo trovato una stanzetta, in paese, dove dormire, presso una signorina del posto, che viveva dando alloggio ai pellegrini. Ci preparava anche un piatto di minestra, mentre ci raccontava cose straordinarie riguardanti Padre Pio, di cui era figlia spirituale. Prima che spuntasse l’alba, ci svegliavamo e dopo esserci lavati e vestiti in fretta, ci incamminavamo alla luce delle ultime stelle lungo la via che conduceva al Santuario della “Madonna delle Grazie”, a quei tempi fiancheggiata soltanto da poche case, qualche piccolo albergo e alcuni negozi di articoli religiosi.
Insieme con tanti altri, pellegrini e sangiovannesi, recitavamo il Santo Rosario, attendendo, sul sagrato, che si aprissero le porte della Chiesa. Il cuore mi batteva all’impazzata per l’emozione di partecipare alla Messa di Padre Pio. Quando lo vedevo salire sull’Altare, mi sentivo come sospesa tra cielo e terra. Egli volgeva le spalle all’assemblea, ma all’”orate frates” si volgeva verso di essa, alzando le braccia. Era allora che, scivolando le maniche verso i gomiti, le mani si scoprivano e apparivano chiaramente le loro piaghe vermiglie e sanguinanti. Pregavo con tutto il cuore, indirizzandogli i miei pensieri, certo che Lui ne venisse a conoscenza per vie soprannaturali. Gli chiedevo soprattutto che intercedesse per la guarigione di mia sorella. Era l’unica ed eravamo molto legate, nonostante fosse maggiore di dodici anni.
Per questa differenza di età era quasi una seconda mamma per me. Quando ero piccola, giocava con me facendo da zia alle mie bambole, per le quali confezionava vestitini, maglioncini e cuffiette. Era fiera dei bei voti che meritavo a scuola, spronandomi ad essere sempre preparata nello studio. Spesso anche bisticciavamo perché io toccavo le sue cose “da grande”, o facevo la “spia” riferendo a mamma e papà i suoi piccoli segreti.
Non riuscivo a pensare alla mia vita senza di lei. Avevo quattordici anni e ritenevo che i miei genitori, allora cinquantenni, fossero già molto anziani, per cui, se Nietta fosse venuta a mancare, presto sarei rimasta sola. Giunsi a formulare un voto, nella preghiera: Se Nietta fosse guarita sarei diventata suora come le “Apostole del Sacro Cuore”, che avevo conosciuto nell’Ospedale di Padre Pio. Mi sembravano degli Angeli, presso gli ammalati, ma soprattutto quando cantavano nella Cappella, durante l’Adorazione Eucaristica del
pomeriggio, a cui cercavo di non mancare. Una volta Suor Giannina mi disse che trovava sempre il banco, dove mi sedevo, bagnato delle mie lacrime.
Suor Giannina e Suor Ancilla erano due suore, giovani e di soave bellezza, che, in modo particolare, erano vicine a mia sorella e a mia madre accorrendo prontamente nei momenti più critici, quando i dolori si facevano insopportabili.
Un pomeriggio Suor Ancilla si era seduta accanto a Nietta per discorrere un po’ con lei, dandole conforto. Ad un certo punto mia sorella avvertì il solito profumo, che anche durante la degenza a San Giovanni Rotondo le si era più volte manifestato. Mia madre cercò invano, nella stanza e fuori di essa, la fonte di quel profumo. “Sarà una tua impressione, Nietta, perché qui non c’è niente che profumi, anzi si sente solo odore di medicinali” disse. Suor Ancilla era impallidita. Dopo qualche minuto di silenzio, con voce tremante per l’emozione, esclamò: “Grazie a te, Nietta, per la prima volta anch’io ho potuto sentire il profumo di Padre Pio!”.
Il male avanzava inesorabilmente. Avevano messo il tubicino dell’ossigeno nelle narici di Nietta, per aiutarla a respirare. Non mangiava quasi più nulla ed invano le suore le facevano portare cibi leggeri e gradevoli. Dopo il primo cucchiaio lasciava tutto. Anche alcune donne del paese, che visitavano gli ammalati, seguendo le raccomandazioni del loro padre spirituale, facevano di tutto per farla mangiare, preparandole pietanze squisite, a casa loro, insieme con del pane profumato e soffice.
Pur conservando tutta la sua bellezza, Nietta era dimagrita moltissimo. Il suo corpo sembrava appartenere ad una bambina di una decina di anni. Per questo motivo mia madre, prendendomi in disparte, mi disse tra le lacrime, di portare l’abito bianco, indossato da me, per la Prima Comunione. Sarebbe servito ora per la sepoltura di mia sorella.
Io non volli neanche pensare ad una simile eventualità. Mi chiedevo: Perché allora Padre Pio aveva chiamato accanto a sé Nietta, se non per ottenerle il miracolo della guarigione? Occorreva solo continuare a pregare e ad avere una fede incrollabile.
Non si verificavano forse continui eventi prodigiosi per intercessione di Padre Pio? Tutti i giorni ne sentivamo raccontare, in Ospedale, da pazienti e da loro parenti, o in Chiesa da coloro che erano venuti a ringraziare Dio e la Madonna. Noi stessi ne eravamo testimoni.
Avevamo forse dimenticato la signora in coma che era nel letto accanto a quello di Nietta? Il marito, Matteo Grifa di San Marco in Lamis, disperato aveva portato i figlioletti in Chiesa. Non c’era nessuna a quell’ora, vicina al pranzo. Si era diretto verso l’altare e rivolgendosi alla Madonna, raffigurata nel grande mosaico, aveva gridato: “ E ora come faccio con questi?” In alto, sul matroneo, stava pregando Padre Pio, che, alzatosi e affacciatosi alla balaustra, aveva tracciato un segno di Croce verso quelle creature piangenti.
Tornato in Ospedale, Matteo trovò la moglie che, seduta sul letto, stava mangiando. Sbalordito chiese cosa fosse successo. Gli rispondemmo che, improvvisamente, si era risvegliata e aveva detto: “ho fame”. Matteo allora ci raccontò che cosa era avvenuto in Chiesa: l’evento miracoloso coincideva con la benedizione di Padre Pio. Dopo una settimana la donna fu dimessa, completamente ristabilita, e la famigliola potè tornare a casa felice e grata al Signore. Dunque, perché noi dovevamo perdere la speranza?
Anche Padre Mariano Palladino ci esortava in questo senso. Come Cappellano di quel reparto curava Nietta dal punto di vista spirituale. Poiché, a causa della guerra e per altri vari motivi, mia sorella non aveva ancora ricevuto la Cresima, Padre Mariano organizzò una semplice e commovente cerimonia, in cui venne amministrato quel Sacramento all’inferma, nel suo letto di dolore, alla presenza dei suoi cari, delle suore e di un’infermiera che le fece da madrina.
Ai miei genitori Padre Mariano, per rasserenarli, riferiva che non mancava mai di raccomandare il nostro caso alle preghiere di Padre Pio. Anche dottori, infermieri e quanti potevano avvicinare lo stigmatizzato, in quanto suoi figli spirituali, ci assicuravano la stessa cosa.
Fu così che decisi di vincere la mia timidezza e di cercare anch’io di parlare con Padre Pio. Non era facile. L’unico modo era quello di confessarsi da lui, ma io non ne avevo il coraggio. Avevo sentito dire che era severo: a volte sgridava ad alta voce e scacciava via dal confessionale senza dare l’assoluzione. Io mi ritenevo una grande peccatrice che meritava certamente una sua “scupugliata”. Preferii, perciò, cercare di dirgli ciò che mi stava a cuore, attendendolo nel corridoio, che collega la Chiesetta antica con il Convento,
dov’è la Portineria. Egli lo attraversava quando, finita la preghiera liturgica del pomeriggio, con la “Visita al SS. Sacramento”, tornava nella sua cella. Mi misi, pertanto, proprio dietro la transenna che, per proteggerlo, divideva il suo passaggio dalla folla dei fedeli e aspettai che arrivasse. Quando ciò avvenne, gli spintoni e le gomitate di chi, come me, desiderava parlargli o anche solo toccarlo, mi fecero ritrovare fuori, all’aperto. Ero molto dispiaciuta.
Mi consolai pensando che di certo, per i suoi carismi, a Padre Pio erano ugualmente note le mie intenzioni. Fu in quel momento che mi accorsi di essere avvolta da un profumo intensissimo, quale avrebbe potuto effondere un’immensa quantità di fiori di ogni specie.
Quel profumo tornò più volte, per brevi momenti, e poi scomparve del tutto. Ne capii il significato e mi si riempirono gli occhi di lacrime e il cuore di gioia.
Così trascorsero più di tre mesi, in un continuo alternarsi di momenti di speranza e di lunghe ore di sofferenza. Tutto però era come avvolto dalla consolazione della vicinanza spirituale di Padre Pio. Durante quel periodo ebbi l’occasione di essere presente a numerose Messe del Padre ed ad altri suoi momenti di preghiera, come l’Angelus, a mezzogiorno, accompagnato dalla benedizione e dal saluto che Egli rivolgeva ai pellegrini, sventolando un fazzoletto bianco dalla finestrella della sua stanza.
Avevo sentito raccontare tanti episodi che lo riguardavano e ogni giorno mi giungeva l’eco dei suoi insegnamenti e delle sue raccomandazioni, che raccoglievo e custodivo nel mio cuore. Ad ottobre però, papà ed io dovevamo ritornare a Grumo, perché dovevo riprendere a frequentare la scuola. Mi ero iscritta al IV Ginnasio dell’Istituto liceale di Gioia del Colle, che raggiungevo viaggiando in treno.
Dovevo affrontare studi impegnativi, ma la mia testa era volta altrove. Da San Giovanni non ci pervenivano buone notizie, finché giunse una telefonata con la quale mamma ci chiedeva di raggiungerla al più presto perché la situazione era precipitata.
Quando arrivammo, con il cuore in subbuglio, ci accolse il sorriso di Nietta, felice di rivederci. Aveva superato la crisi. Ci disse che aveva chiesto a Gesù di non farla morire prima che potesse riabbracciarci.
Mio padre corse in Chiesa nella speranza di parlare in confessione con Padre Pio ancora una volta. Quando tornò ci raccontò di esserci riuscito. Gli aveva detto:“Padre, ma lo vuol capire che mia figlia sta morendo?” e Lui gli aveva risposto: “Luciano, Luciano, sei tu che non vuoi capire. Facciamo la volontà di Dio! Preghiamo, Passerà.” Quest’ultima parola gli era sembrata la promessa dell’imminente fine della prova dolorosa, con l’esaudimento delle nostre aspettative. Ma nel momento stesso in cui ci riferiva questo, si fece chiaro il suo significato: sarebbe passata Nietta! Lo sgomento ci invase. Col trascorrere delle ore la situazione tornò a peggiorare. Nietta ormai era semiparalizzata e respirava a fatica. Le toccai i piedi e le gambe: erano gelidi. Inutilmente glieli frizionai.
Era sera. Dalla finestra della stanza dell’Ospedale guardavo la Chiesa e il convento, ormai immersi nella tranquillità, senza il via vai dei pellegrini. Pensavo a Padre Pio nella sua cella e lo invocavo perché venisse in nostro aiuto. I medici scuotevano il capo. L’agonia era incominciata. Padre Mariano, dopo aver amministrato l’Estrema Unzione, restò in preghiera con alcune suore e infermiere accanto a mia sorella e a noi, per darci conforto.
Ad un tratto Nietta, con un’energia improvvisa e inspiegabile, si mise seduta sul letto, alzò il capo, che poco prima non riusciva più a tenere ritto e, fissati gli occhi verso un punto della stanza disse, con molta compunzione: ”Eccolo , viene!” “ Vede qualcuno” sussurrò Padre Mariano. Eravamo tutti col fiato sospeso.
Lei sollevò le braccia verso colui che le era apparso e pregò: ”Gesù mio! Basta con queste sofferenze! Te le offro tutte come un fascio di rose per la Tua mamma”. Poi riadagiatasi sul letto, si rivolse a noi: “Papà, mamma, non piangete per me e tu, Lilly, sii sempre la consolazione dei nostri genitori”. Dopo queste parole, traboccanti d’amore, suo testamento spirituale, non respirò più. Era l’alba del 18 Ottobre.
Furono momenti di smarrimento e di dolore inesprimibili. Le suore ci convinsero ad uscire dalla stanza ed ad andare nella loro casa. Lì cercarono di dar sollievo alla stanchezza che la veglia di quella notte ci aveva procurato, offrendoci del latte caldo e del caffè. Io non riuscivo a frenare le lacrime che scendevano copiose, senza gemito alcuno. Sentivo il cuore raggelato. Non mi sembrava reale ciò che stavo vivendo. Suor Giannina, prendendomi in disparte, mi parlò con grande dolcezza e comprensione: “Un giorno capiremo perché” fu la sua risposta alle mie domande.
Quando tornammo nella stanza, la trovammo vuota. Un’altra stanza aveva accolto Nietta. Sembrava che dormisse. Era bellissima, vestita da sposa. Durante la notte le suore con la tovaglia d’altare, le avevano confezionato un abito di seta bianca. Poi le avevano adornato i lunghi capelli neri con fiori anch’essi bianchi e le avevano messo una rosa fra le mani giunte sul petto.
Tutto il giorno durò la processione di persone che, durante quei mesi, l’avevano conosciuta. Molti dicevano: “sembra Santa Maria Goretti”.
Anche a Grumo tutta la popolazione partecipò all’ultimo saluto, compresi tanti bambini che erano stati suoi alunni e che non avrebbero mai più dimenticato quella giovane maestra che li aveva incantati con i suoi modi gentili e il suo aspetto così fuori del comune.
Seguì un periodo molto difficile per la nostra piccola famiglia, che avvertì in modo insopportabile il vuoto lasciato da Nietta. Mamma era inconsolabile e versava in uno stato di prostazione psicofisica. Anche mio padre non era più lo stesso, accasciato com’era da quel grande dolore. Mi resi conto che la nostra vita era completamente cambiata. Io, in particolare, ero ormai uscita dalla spensieratezza e dall’allegria che avevano caratterizzato la mia fanciullezza. Imparai a cucinare e a sbrigare le faccende di casa, cercando, nel contempo di studiare con profitto.
Quando forti dolori alla colonna vertebrale costrinsero mia madre a letto, decidemmo di ricoverarla a San Giovanni Rotondo. Ritrovammo lo stesso personale ospedaliero che ci accolse con grande affabilità e si mise a disposizione per aiutarci. Il dottor Sala si prese cura delle condizioni di salute di mia madre e le fu vicino anche dal punto di vista psicologico. Ma chi intervenne in modo risolutivo fu Padre Mariano. Una mattina entrò nella stanza dov’era mia madre, annunciandoci che era venuto a portarci un grande regalo: ci aveva ottenuto un incontro con Padre Pio.
Fu così che ci ritrovammo nel corridoio che collega la Chiesa antica con il Convento, al di qua della transenna che impediva l’assalto dei fedeli, al passaggio di Padre Pio. Eravamo emozionatissimi e attendevamo con ansia il suo arrivo. Finalmente apparve! Pallidissimo e molto sofferente camminava a fatica, sorretto da due confratelli. Uno di questi era Padre Mariano che, vedendoci, sussurrò all’orecchio di Padre Pio:”E’ la mamma di Nietta!.” Egli si fermò e, cambiando espressione, distese i lineamenti del volto in un dolcissimo sorriso. Si avvicinò a mia madre che era inginocchiata e la benedisse, ponendole una mano sulla testa. Lei, in seguito, raccontò come in quel momento avvertisse una forte scossa attraversarle il corpo, mentre il cuore, che batteva all’impazzata, sembrava volerle uscire dal petto.
Poi si diresse verso mio padre e l’abbracciò. Infine si rivolse a me. Quale tempesta di pensieri e di sentimenti agitasse la mia persona in quegli attimi son so descrivere. Ero felice ma, al contempo, mi sentivo indegna. Non sapevo se baciargli la mano, perché temevo di procurargli dolore e soprattutto mi aspettavo un suo rimprovero. I suoi occhi mi penetrarono l’anima mentre mi porgeva la mano. Timidamente mi avvicinai, ma prima che potessi sfiorarla con le labbra, Egli la ritrasse improvvisamente, con espressione severa. Mi sentii morire. Avevo ragione dunque a ritenermi una grande peccatrice! Ma Lui scoppiò a ridere e mi appoggiò la mano sulla bocca. Gliela baciai con grandissimo trasporto, grata per avermi dato quel segno della sua capacità di introspezione, ma anche del suo affetto paterno, nel suo prendersi gioco delle mie infantili paure.
Quindi, dopo averci benedetto, riprese il suo sofferto andare. Non ebbi più occasione di incontrarlo, dopo che mia madre fu dimessa di lì a poco, in condizioni di salute decisamente migliori. Posso dire però di aver continuato a vivere sentendomelo continuamente accanto, come padre spirituale, angelo protettore, maestro di verità eterne.

Ho capito soprattutto che nel momento del dolore, durante il quale la mia famiglia è stata provata nella fede, Egli si è fatto presente nella vita di noi tutti, chiamandoci con quel suo profumo accanto a sé, per sostenerci con la sua preghiera e il suo amore e aiutarci così a trasformare la nostra croce in mezzo altissimo di santificazione.

Angela Abruzzese in D’Elia

Fraternità di Grumo Appula

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